La cura delle malattie e della fragilità del corpo è stata per lo più considerata un ambito in cui la spiritualità non è di casa. Tanto nella sua versione religiosa, quanto in quella laica, la spiritualità è correlata a una dimensione di completezza: la religione la chiama “salvezza”, la filosofia umanistica “autorealizzazione”. La cura fornita dalle professioni sanitarie si attua su un altro piano; tende a guarire e a mantenere in salute le persone, non a farle diventare migliori in senso etico o più complete in senso spirituale.
Eppure la buona medicina non dovrebbe trascurare la dimensione spirituale della cura. La spiritualità è implicita nell’ascolto. Non tanto “Io ti salverò”, quanto piuttosto “Io ti ascolterò” è la promessa inclusa nella medicina personalizzata. Questo ascolto fa emergere che cosa la singola persona richiede ai curanti – “restitutio ad integrum”, guarigione sufficiente o “Grande Salute” – e quanto è disposta a coinvolgersi nel processo di crescita.
La spiritualità, dunque, pur rimanendo sullo sfondo, è una componente essenziale della buona medicina.
La relazione come tempo di cura nell’assistenza alla fragilità va promossa e valorizzata tanto che nel Codice deontologico infermieristico è scritto che “il tempo di relazione è tempo di cura”.
Il luogo di elezione per l’assistenza alla fragilità nell’attuale panorama sanitario ed in quello futuro è il domicilio con percorsi di cura coordinati e governati da professionisti esperti, preparati per facilitare la gestione della fragilità e della complessità che ne deriva, favorendo la relazione, la comunicazione e l’educazione attraverso la valutazione di tutti i bisogni del nucleo paziente -famiglia e quindi una presa in carico globale.